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mercoledì 21 novembre 2018

Reddito di cittadinanza con l’Isee


Secondo quanto annunciato online dal Movimento 5 Stelle, il reddito di cittadinanza sarà destinato alle famiglie con un Isee fino a 9.360 euro annui.

record a Crotone, Napoli e Palermo

In provincia di Crotone più di una famiglia su quattro (il 27,9%) ha un Isee così basso da rientrare nel reddito di cittadinanza. A Napoli, Palermo e Caltanissetta una su cinque. All’estremo opposto della 
classifica, a Bolzano ha i requisiti solo una famiglia su 40, a Belluno e Sondrio una su 30. Lo dimostra l’analisi del Sole 24 Ore del Lunedì sugli Isee ordinari presentati in Italia nel 2016 (ultimo dato disponibile) e monitorati dal ministero del Lavoro.

Secondo quanto annunciato online dal Movimento 5 Stelle, il reddito di cittadinanza sarà destinato alle famiglie con un Isee fino a 9.360 euro annui. Perciò, anche se i dettagli non sono ancora definiti – l’obiettivo è farlo con un provvedimento ad hoc –, i dati storici dell’Isee permettono già di ragionare sulla platea degli interessati. 
E sul riparto dei 9 miliardi stanziati dalla manovra di Bilancio 2019.

Sud e Isole in testa
Il maggior numero di potenziali beneficiari si trova in provincia di Napoli (quasi 230mila famiglie), seguita da Roma (173.200), Milano (103.600), Palermo (100.800) e Torino (95.900). Ma queste cifre vanno rapportate agli abitanti. 
Se a Napoli e Palermo l’incidenza supera il 20% delle famiglie residenti, a Torino e Roma è intorno al 9%, mentre a Milano non arriva al 7 per cento. Di fatto, le prime 34 province per frequenza degli 
interessati sono tutte al Sud e nelle Isole.

I valori dell’Isee, d’altra parte, sono storicamente più bassi nel Mezzogiorno, dove i redditi sono inferiori, la disoccupazione più alta, le famiglie mediamente più numerose e i depositi bancari e gli investimenti minori. Né basta a controbilanciare gli altri fattori la percentuale di proprietari di casa, più alta che al Centro-Nord. Tutto ciò si riflette sulla mappa: fatte 100 le famiglie con i requisiti d’ammissione, 48,6 sono al Sud e nelle Isole, 19 al centro e 32,4 al Nord.

Anche il rapporto Svimez dei giorni scorsi conferma il peso del Mezzogiorno, cui andrebbero il 63% delle risorse disponibili (si veda Il Sole 24 Ore di venerdì 9 novembre).

Parametri da rivedere
Distribuzione a parte, ciò che salta all’occhio è la dimensione della platea che si dovrà dividere le 
risorse stanziate dal Governo – pur con la bocciatura della commissione Ue – se la soglia Isee indicata per l’accesso sarà confermata.

I nuclei familiari che nel 2016 hanno presentato una o più dichiarazioni sostitutive uniche (il 
documento-base per il calcolo dell’Isee) sono 4,5 milioni in tutta Italia, per un totale di oltre 14 milioni di persone. Di queste, le famiglie con Isee inferiore a 9mila euro sono 2,5 milioni. E la stima dei potenziali beneficiari è addirittura per difetto, se si considera che la soglia annunciata è un po’ più alta (9.360 euro) e chi non ha mai presentato
 un Isee potrebbe farlo nel 2019 per avere il nuovo sostegno.

Anche considerando per intero i 9 miliardi stanziati, l’aiuto “di massa” si traduce in una media di 293,85 euro mensili per famiglia. Meno della metà dei 780 euro indicati come obiettivo e meno dei 305 euro che rappresentano oggi il valore medio del reddito d’inclusione. Con la differenza che quest’ultimo va a una platea sei volte più piccola (378mila famiglie).

Si spiegano anche così le voci circolate nei giorni scorsi, che mettono in discussione gli annunci 
precedenti. Compresa l’ipotesi di trasformare il reddito, 
a certe condizioni, in un incentivo ad assumere i giovani disoccupati.


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mercoledì 14 novembre 2018

Per Quota 100 Penalizzazioni in Vista

PER CHI SCEGLIE QUOTA 100 PENALIZZAZIONI IN VISTA

PER CHI SCEGLIE QUOTA 100
 PENALIZZAZIONI IN VISTA

"Le audizioni in corso alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato mettono sempre piu' in evidenza le incongruenze politiche e contabili della manovra". Lo afferma Cesare Damiano, candidato alla segreteria del Partito democratico, a proposito della legge di Bilancio.
"Basta esaminare - continua - quanto affermato dall'Ufficio
Parlamentare di Bilancio e dalla Corte dei Conti". Nel primo caso si evidenzia un fenomeno finora non venuto alla luce: che optare per '#Quota100' significa tagliare del 5% all'anno l'importo dell'assegno, fino a un massimo del 30%. Il taglio 'implicito' dell'assegno diventa pesante se abbinato al divieto, per i primi 2 anni, di svolgere un'attivita' da parte di chi ha aderito a 'Quota 100'. Inoltre, l'Upb ha evidenziato che potrebbero uscire dalle aziende oltre 400.000 lavoratori: in quel caso, il costo salirebbe a 13 miliardi. E' evidente che i 6,7 miliardi per le pensioni,
stanziati dal Governo, sono del tutto insufficienti. Un altro
capitolo e' stato aperto dalla Corte dei Conti che ha evidenziato come la composizione qualitativa della manovra assegni l'80% delle risorse alla spesa corrente e soltanto il 20% agli investimenti" Quello che il Governo si ostina a non voler capire e' che i conti non stanno in piedi per due motivi: la legge di Bilancio e' squilibrata a svantaggio degli investimenti e c'e' il rischio che
il 2,4% venga sfondato perche' le promesse gialloverdi, esagerate (Quota 100, Quota 41, Opzione Donna, nona salvaguardia degli esodati, blocco dell'aspettativa di vita, Reddito e pensione di Cittadinanza), non saranno possibili data l'esiguita' delle risorse, 6,7 miliardi piu' 9 miliardi, complessivamente messe a disposizione. La realta' e' piu' dura della fantasia, al di la' di quello che pensano Di Maio e Salvini", conclude.



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giovedì 8 novembre 2018

Né reddito né cittadinanza: ecco come non funzionerà il bonus

Disoccupazione endemica, caporalato agricolo, emergenza migranti dalla vicina Riace e dalla baraccopoli di San Ferdinando rendono la situazione esplosiva.


Né reddito né cittadinanza: ecco come (non) funzionerà il bonus a Reggio Calabria
Disoccupazione endemica, caporalato agricolo, emergenza migranti dalla vicina Riace e dalla baraccopoli di San Ferdinando rendono la situazione esplosiva. 
E i sequestri giudiziari delle imprese controllate dai clan non migliorano la situazione 

DI GIANFRANCESCO TURANO


Dopo le grandi infrastrutture, la prossima battaglia persa dei grillini contro gli alleati-nemici leghisti è quella sul reddito di cittadinanza. Un esempio basta a spiegare come la misura più elettoralista del programma a cinque stelle rischi di avere un effetto boomerang 
sul consenso M5S a favore della destra salviniana.

Qualche giorno fa una madre di famiglia della comunità rom si presenta al Cpi (centro per l’impiego) di Reggio Calabria per informazioni sul sussidio che dovrebbe partire dall’aprile 2019. La donna percepisce al momento un Rei (reddito di inclusione) che verrebbe incrementato fino ai 780 euro del Rdc. Come il Rdc, il Rei (534 euro al massimo dal primo giugno) è già vincolato alla ricerca di un lavoro e decade alla terza offerta rifiutata.
Con una battuta il funzionario replica che per le modalità esatte del Rdc bisogna chiedere a Luigi Di Maio, poi fa il riassunto di quello che ognuno ha letto sui giornali. La donna sembra soddisfatta. Non volendo mostrare meno sense of humour del funzionario, conclude: «Dottore, mandatemi i soldi ma non mi chiamate mai per offrirmi un lavoro».

I leghisti in cerca di consensi al Sud avranno vita facile a strumentalizzare il Rdc come regalia parassitaria a zingari e immigrati. Del resto, immaginare che il Cpi di Reggio possa dare tre possibilità di impiego ai suoi oltre 45 mila iscritti, che quasi raddoppiano se si parla di città metropolitana con i Cpi di Gioia Tauro e di Locri, più otto sedi decentrate, è un puro atto di fede.

«Il lavoro non me lo posso inventare», dice un altro impiegato. «I miei colleghi veneti si lamentavano che gli allievi dei loro istituti tecnici all’ultimo anno ricevono cinque proposte di tirocinio di cui quattro vanno perse. Magari avessimo qui una proposta di tirocinio per ogni cinque studenti».

I dipendenti del Cpi dovrebbero anche controllare che chi percepisce il reddito di cittadinanza passi due ore al giorno a cercarsi un lavoro e segnalare ogni inadempienza all’Inps, che eroga il sussidio, e agli uffici giudiziari locali, già sottodimensionati e puntellati da centinaia di tirocinanti, veri precari di Stato di lungo corso per 500 euro al mese senza contributi e tfr, impiegati a centinaia negli uffici giudiziari della Calabria.
È difficile pensare che in una Procura sovraccarica come quella di Reggio siano ansiosi di dare la caccia anche ai furbetti del sussidio ai quali Di Maio ha minacciato sei anni di carcere dimenticando l’oceano di lavoro nero sul quale il Sud tenta di galleggiare.

A chi non vuole essere disturbato con improbabili offerte di impiego si aggiungono gli immigrati di Riace e di San Ferdinando, una disoccupazione fra le più alte dell’Ue, un tessuto economico messo in ginocchio dai sequestri giudiziari verso le imprese della ’ndrangheta, sacrosanti ma rimpiazzati dal nulla produttivo. Insomma, ci sono le premesse perché Reggio, amministrata dal Pd e al voto nel 2019, finisca in braccio alla reazione come quasi cinquant’anni fa, ai tempi dei Boia chi molla, con un effetto a catena per la Calabria guidata dal democrat Mario Oliverio, anch’egli in scadenza di legislatura l’anno prossimo.

PESCE D'APRILE

I dipendenti dei Cpi della città metropolitana sono 145 (400 in Calabria, 1737 in Sicilia, ottomila in Italia). Con 48 mila iscritti solamente a Reggio città fanno l’impossibile in un’area metropolitana di 551 mila abitanti con un tasso di occupati del 37 per cento
 contro il 59 per cento della media nazionale.

Sessanta di loro hanno alle spalle dieci anni di precariato pagato con fondi Ue. Il loro stipendio era inferiore al Rdc (720 euro al mese per 18 ore a settimana cioè 10 euro l’ora). Sono tutti specialisti, psicologi, orientatori, consulenti d’impresa, e sono appena stati stabilizzati dalla Regione, che ha assunto il coordinamento dei Cpi calabresi, come è accaduto in tutta Italia, Lombardia esclusa. Fanno di tutto, dal counseling alla formazione, e si confrontano con la concorrenza delle agenzie private accreditate dalla Regione, quelle che possono spendere, o dicono di potere spendere, il patrimonio di relazioni, conoscenze, amicizie che rimane la via maestra per trovare un lavoro.

Negli uffici del Cpi di Reggio l’idea di partire con il Rdc la prossima primavera è considerata in linea con la tradizione del primo aprile: uno scherzo. Qualcosa si farà, forse la pensione di cittadinanza che è un adeguamento di posizioni Inps relativamente semplice. Ma sui disoccupati le indicazioni del governo centrale sono ancora vaghe. Qui, come altrove in Italia, ci sono difficoltà fin dai sistemi informatici che già nel bando di assunzioni del 1987 dovevano essere unificati a livello nazionale e, trent’anni dopo, continuano a non dialogare. A Reggio c’è lo stesso software dell’Umbria e dell’Emilia Romagna ma per avere tutte le informazioni sulla posizione di un iscritto a volte è necessario aprire quattro sistemi, dal più vecchio al più nuovo messo a disposizione dall’Anpal, l’agenzia nazionale per il lavoro. Spesso nemmeno questo garantisce di identificare tutte le eventuali esperienze lavorative sul territorio nazionale.

Un altro tema sono i sussidi precedenti, dalla Naspi creata dal governo Renzi nel 2015, all’Asdi, al Sia e infine allo stesso Rei, il reddito di inclusione che qualche giorno fa la Caritas ha chiesto all’esecutivo di non eliminare sottolineando l’aumento dei poveri assoluti da 4,7 milioni di persone nel 2016 a 5,06 milioni nel 2017.
L’idea è di fare confluire tutte queste forme di erogazione nel Rdc. Anche se non è chiaro quanti potranno essere i destinatari: forse 5, forse oltre 6 milioni di residenti in Italia da oltre cinque anni, cittadini e non. La spesa a regime dovrebbe essere di 9 miliardi di euro, incluso l’investimento di 1-1,5 miliardi di euro nei Cpi.
Oltre all’agognato sistema informatico unico, gli arredi dei centri in versione gialloverde dovranno essere identici in tutto il territorio nazionale, 
analogamente a quanto accade con le banche e gli uffici postali.

LA 'NDRANGHETA NON DA' PIU' LAVORO 

A Reggio non sarà facile. In questa città spesso gli edifici hanno storie complicate 
e il Cpi non fa eccezione.
La sede del centro è nella zona sud della città, a pochi passi dallo stadio, e ci si arriva per abitudine senza dovere guardare i cartelli arrugginiti e scrostati seminati per il quartiere Sbarre. La palazzina gialla a due piani è controllata da un immobiliare milanese (Entheos) in mano alla famiglia reggina Remo-Nucera. Entheos ha dato lo sfratto esecutivo al Cpi per morosità del Comune, dichiarato in predissesto finanziario ai tempi dello scioglimento per infiltrazioni mafiose e alle prese un piano di rientro dal debito durissimo.
Fino a marzo di quest’anno nella palazzina gialla di Sbarre non si riceveva per appuntamento. Nelle stradine intorno al Cpi la gente dormiva in macchina per arrivare prima all’apertura. Si andava all’assalto. Al confronto, adesso sembra una clinica svizzera. Resta, come in clinica, il senso di una malattia che, a Reggio e al sud, è considerata inevitabile.

La mancanza di lavoro colpisce in modo sistematico i giovani (63 per cento di disoccupati fra i 15 e i 24 anni con punte del 75 per cento fra le donne), quelli che si chiamano Neet con un acronimo inglese (not engaged in education, employment or training). Ma in forte emersione è la fascia di nuova povertà che investe i cinquantenni rimasti senza impiego durante i sequestri giudiziari, spesso seguiti da fallimenti, di gruppi imprenditoriali legati ai clan come quello di Dominique Suraci, imprenditore della grande distribuzione condannato in giugno a dodici anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.
La casistica umana è sterminata. Per raccontarla ci vuole un doppio anonimato, quello del disoccupato iscritto e quello del dipendente che lo racconta e che dovrebbe chiedere l’autorizzazione scritta del superiore per parlare con la stampa.

Un funzionario racconta la sua esperienza con i casi più difficili, che sono distribuiti tra la fascia giovanile, dove ancora sopravvivono forme di sostegno dei familiari, e quella dei vecchi baby-boomer nati negli anni Sessanta, la più disperata.
In controtendenza con la tradizione solidaristica delle famiglie del Sud, c’è la vicenda recente di un ragazzo di 22 anni, sposato, due figlie, con il Rei e qualche lavoretto in nero in un autolavaggio. Morto il padre, la madre che non andava d’accordo con la nuora li ha cacciati di casa e non sanno dove andare.
Un’altra iscritta, una donna di 45 anni, viene da vent’anni di violenza domestica che l’hanno lasciata invalida. Per lei potrebbe valere il collocamento mirato che le aziende sopra i quindici addetti devono riservare ai portatori di handicap. Il problema è che la maggioranza delle imprese del territorio hanno un solo addetto. Rare quelle sopra i quindici, rarissime sopra i cinquanta. Fra le grandi ci sarebbe l’Hitachi-Ansaldo, impresa di punta che vende treni in mezzo mondo. Ma Hitachi non è soggetta a collocamento mirato perché fa attività di cantiere, dunque a rischio, e in ogni caso, quando ha bisogno di personale, si rivolge a un’agenzia di lavoro interinale con sede a Palermo.

«Piccole o grandi», dice l’impiegato del Cpi, «le aziende non hanno fiducia nel nostro sistema e preferiscono assumere a chiamata diretta, attraverso le relazioni, le conoscenze. Noi facciamo cinque colloqui al giorno e siamo in dieci. Personalmente nell’ultimo anno ho concluso due cocopro e un’assunzione a tempo indeterminato di un ingegnere sotto i quarant’anni che era stato licenziato da un’impresa edile cittadina in crisi. Mi ha detto ridendo: spero di non rivederla più».

ACCOGLIENZA CONTRO CAPORALATO

Come accadeva negli anni Settanta, quando i libri gratis alle scuole medie li ottenevano regolarmente i figli dei professionisti più in vista della città, anche con i sussidi non mancano né mancheranno gli abusi dettati dalla scarsa attitudine italiana alla contribuzione fiscale.

C’è la figlia trentenne e laureata del tributarista con due figli e bella casa in comodato d’uso dalla zia che incamera il Rei. E c’è il quasi sessantenne ex informatore scientifico con tre figli minorenni e la moglie costretta a fare la maestra in Veneto che vive con la pensione del fratello bancario e non ha diritto al Rei perché, oltre alla prima casa, ha un pezzo di terra con quattro piante di bergamotto fuori città.

Nelle liste di chi percepisce il Rei sono molto aumentati anche gli extracomunitari con permesso di soggiorno. Sull’accoglienza agli immigrati la Calabria si trova in prima linea e ha reagito con esempi virtuosi come quello di Riace, animato dal sindaco Mimmo Lucano, o indegni come la baraccopoli di San Ferdinando nell’area tirrenica. Chi ha lavorato nel Cpi di Locri o nella sua sede distaccata di Caulonia racconta dei corsi di orientamento fatti per la rete Sprar a Riace. Sono state esperienze meritorie ma spesso sporadiche perché collegate alle disponibilità di fondi europei. Esauriti i fondi, finiva anche la formazione salvo ripartire dal punto iniziale una volta che il denaro tornava disponibile. È quasi superfluo descrivere la complessità di un impegno che parte dalla mediazione linguistica e culturale, con l’impiego di interpreti improvvisati e magari laureati nel loro paese. Il passaggio successivo è la costruzione di un curriculum da presentare a un possibile datore di lavoro o, nei casi più qualificati, di un bilancio di competenze tecnico-specialistiche.

«Imparare come ci si propone sul mercato del lavoro», racconta un’addetta del Cpi, «è un lavoro in se stesso, e non soltanto per rifugiati che arrivano dall’Africa o dall’Asia».

L’importanza dell’esempio Riace è messa in risalto per contrasto da quello che è successo nella piana di Gioia Tauro, una delle principali zone agricole della Calabria dominata dal caporalato, oggi come negli anni Cinquanta dello scorso secolo. Lo scandalo della baraccopoli di San Ferdinando ha portato l’anno scorso alla firma di un protocollo contro il caporalato in prefettura. Non ci si può illudere di battere il crimine organizzato a colpi di firme. Ma, se è per questo, non sarà il reddito di cittadinanza a risolvere l’emergenza lavoro al Sud. Al Cpi di Reggio, almeno, non ci crede nessuno.




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mercoledì 7 novembre 2018

A San Francisco hanno Vinto i Poveri

A San Francisco hanno vinto i poveri  Gli abitanti della capitale morale della Silicon Valley hanno votato in massa la Proposition C, una tassa sui ricchissimi per dare una casa a tutti. Funziona così: tutte le società che fatturano più di 50 milioni di dollari l’anno destineranno lo 0,5 per cento ad un fondo per i senza tetto. Si calcola che in questo modo ogni anno ci saranno 300 milioni di dollari a disposizione.

A San Francisco hanno vinto i poveri
Gli abitanti della capitale morale della Silicon Valley hanno votato in massa la Proposition C, una tassa sui ricchissimi per dare una casa a tutti. Funziona così: tutte le società che fatturano più di 50 milioni di dollari l’anno destineranno lo 0,5 per cento ad un fondo per i senza tetto. Si calcola che in questo modo ogni anno ci saranno 300 milioni di dollari a disposizione.

San Francisco si è svegliata. Improvvisamente si è ricordata di non essere solo la capitale morale della Silicon Valley, la città delle startup più fighe del mondo, quella dove qualunque ragazzino può sognare di diventare miliardario con una app e poi farlo davvero. Si è ricordata di essere stata il luogo che ha ispirato la Beat Generation, il movimento hippie, la controcultura di poeti come Ferlinghetti, Allen Ginsburg, Jack Kerouac. Si è ricordata di avere un cuore oltre ad un portafoglio. E i suoi abitanti, in queste elezioni americane di midterm così cariche di segnali, hanno votato in massa per risolvere un problema immenso in un modo semplice. Il problema è quello degli homeless, i senzatetto. Chiamiamoli con il loro nome: I poveri. Che a San Francisco sono ovunque, proprio come gli startupper digitali: li incontri sugli stessi marciapiedi, quelli che ce l’hanno fatta, ricchi, felici, sempre di corsa, atletici ovviamente; e quelli che invece no, e che per questo hanno perso tutto, anche la ragione a volte, sembrano matti nella loro disperazione.

La soluzione, votata dal 60 per cento degli abitanti di San Francisco dopo una campagna elettorale durissima, che ha visto i più noti esponenti della Silicon Valley litigare furiosamente, la soluzione si chiama Proposition C. E’ una tassa sui ricchissimi per dare una casa a tutti. In pratica tutte le società che fatturano più di 50 milioni di dollari l’anno - a San Francisco sono circa 400 - destineranno lo 0,5 per cento ad un fondo per i senza tetto. Si calcola che in questo modo ogni anno ci saranno 300 milioni di dollari a disposizione.

Esulta Marc Benioff, il fondatore e amministratore del colosso Salesforce - nonché da poco editore del magazine Time - che nella campagna ha investito circa 7 milioni di dollari e che si è speso personalmente nei comizi. Ha perso il gran capo di Twitter Jack Dorsey che fino all’ultimo ha detto, su Twitter ovviamente, che questa tassa era inutile e ingiusta. A noi resta una riflessione: la rivoluzione digitale, che ci ha stravolto e per molti versi migliorato la vita, non è stata fatta per creare un mondo diviso fra ricchissimi e poverissimi. 
E per eliminare la povertà purtroppo non esiste una app.
 Forse siamo ancora in tempo per correggerne la rotta.


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sabato 3 novembre 2018

Riforma Centri Impiego e Reddito Cittadinanza

 Che le strutture pubbliche di mediazione fra offerta e domanda di lavoro finora non abbiano funzionato, è evidente a tutti.


Servono tempo e convenzioni con agenzie private.



Reddito cittadinanza, giuslavoristi: “Riforma centri impiego? Impresa da far tremare i polsi”


Giuslavoristi a confronto sulla riforma dei centri per l’impiego promessa dal governo. Che le strutture pubbliche di mediazione fra offerta e domanda di lavoro finora non abbiano funzionato, è evidente a tutti. Sull’ipotesi che possano essere riorganizzate in modo tempestivo ed efficace a sostegno del reddito minimo garantito, i pareri si dividono, con prevalenza degli scettici. “Comunque la si pensi sul cosiddetto reddito di cittadinanza, è una sfida da far tremare i polsi”, dice uno.

“C’è molto da fare su formazione del personale, aumento degli organici e digitalizzazione, per far funzionare la macchina ci vorranno dai due ai cinque anni e maggiori investimenti”, sostengono altri. C’è chi non si fa illusioni: “Il sistema non può funzionare, prima di tutto perché mancano le opportunità di lavoro da offrire a chi riceverà il sussidio, si rivelerà una misura assistenziale”. C’è chi sottolinea la necessità di vigilare con attenzione sui meccanismi di condizionalità: 
“Altrimenti salta tutto l’impianto”.

E c’è anche chi propone un’ipotesi alternativa: “Se l’obiettivo è la ricerca di lavoro, l’unica possibilità realistica è iniziare con una convenzione con le agenzie private sotto la regia pubblica”. Ma una premessa è d’obbligo: “non c’è ancora un testo ufficiale, né sul reddito né sui centri, solo dichiarazioni; noi giuristi siamo abituati a commentare le norme”. Ecco le interviste registrate a Bologna, in occasione del convegno nazionale dell’AGI (Avvocati Giuslavoristi Italiani).


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