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mercoledì 25 luglio 2018

Le prime Vittime del Decreto Dignità


Alla Nestè di Benevento i contratti in somministrazione di 20 dipendenti non sono stati più rinnovati, perché avevano tutti raggiunto il nuovo limite posto dal decreto di urgenza.


Alla Nestè di Benevento i contratti in somministrazione di 20 dipendenti non sono stati più rinnovati, perché avevano tutti raggiunto il nuovo limite posto dal decreto di urgenza.

“Questi sono gli effetti veri del ‘Decreto disoccupazione’ firmato da Di Maio e sostenuto anche della Lega. Lavoratori lasciati a casa. Storie vere di persone e di famiglie, alla faccia della propaganda del governo”. A scriverlo su Twitter è Maurizio Martina che, postando un articolo apparso su Il Mattino, racconta una storia paradossale.

Il decreto Di Maio, almeno nelle intenzioni del suo ideatore, doveva nascere come provvedimento per arginare la precarietà nel nostro Paese ma sta ottenendo l’effetto contrario. Non un fulmine a ciel sereno, le conseguenze erano ampiamente prevedibili e per questo il Pd le ha da subito denunciate cercando di porre modifiche sostanziali che salvaguardassero davvero i lavoratori. Ma non c’è dialogo con chi vuol fare solo propaganda.

E così Il Mattino ci racconta la storia di Antonio e i suoi colleghi, tutti lavoratori stagionali alla Nestlè di Benevento, che sta per diventare l’hub della pizza surgelata della multinazionale. Un’eccellenza che funziona, tanto che erano stati già annunciate 150 assunzioni da qui ai prossimi 4 anni. Ma per i 20 lavoratori precari da 15 anni, il sogno di un lavoro (seppur a tempo) si spegne. Dal 14 luglio scorso, infatti, i contratti in somministrazione non sono stati più rinnovati, perché avevano tutti raggiunto il nuovo limite posto dal decreto di urgenza a firma Di Maio.

Il decreto trasferisce infatti ai contratti in somministrazione (il vecchio lavoro interinale) gli stessi limiti introdotti per i contratti a tempo determinato: il limite massimo passa da 36 a 24 mesi e le proroghe scendono da 5 e 4. Risultato? Quei dipendenti non hanno più un lavoro.

“Siamo le prime vittime del decreto dignità – scrivono sui social a Salvini, Di Maio e anche a Roberto Saviano e Barbara D’Urso – da precari siamo diventati disoccupati”. Venerdì scorso l’ultimo turno, interrotto bruscamente. “Un dirigente” – raccontano ancora al Il Mattino- “ci ha detto che per il momento i nostri contratti non potevano essere rinnovati. Ci ha spiegato soltanto che dovevamo aspettare”. E così faranno, anche perché Nestlè puntualizza che aveva le mani legate: “Non si potevano richiamare i lavoratori in somministrazione che hanno raggiunto il nuovo limite imposto dal decreto di urgenza in ovvia ottemperanza alle nuove normative” ma assicurano che si confronteranno con la parti sociali per “valorizzare tutte le professionalità già maturate sul territorio”.

I nodi sono già arrivati al pettine. Il Pd spera ancora che il Governo accolga i miglioramenti necessari per evitare vincoli, balzelli e complicazioni che questo decreto inserisce. Oltre a creare disoccupazione, come si è visto, il decreto è infatti anche iniquo: per questo il Pd vorrebbe avviare una sperimentazione sul salario minimo. Ma per il Governo giallo verde il tema di un equo compenso non è prioritario.







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sabato 21 luglio 2018

Utilizzare ISEE individuale per REI o reddito di cittadinanza



Utilizzare l'ISEE individuale per REI o reddito di cittadinanza


Utilizzare ISEE individuale per REI o reddito di cittadinanza

Intervento DISOCCUPATI al Convegno 11 luglio di Roma   

 "Revisione e superamento della Legge Fornero (Analisi e proposte)"


                     
Parto dal caso personale per spiegare che l'art.18 non c'è più di fatto nemmeno per i vecchi lavoratori, infatti la Nokia in  7 anni con incentivo all'esodo ha portato l'azienda da 2900 dipendenti a 500 per poi licenziare in modo collettivo gli ultimi 100 lavoratori.

A seguito di causa vinta con reintegro invece di ottemperare alla sentenza licenzia nuovamente in modo individuale in modo oggettivo (riorganizzazione) e questa volta in base a tutti i cambiamenti dovuti alla Fornero e jobs act questa volta la Nokia vince.
L'art. 18 di fatto è stato svuotato che spesso non prevede più il reintegro ma un indennizzo economico che di fatto fa perdere il lavoro.

Chi  ha più  di 55 anni ed è disoccupato involontario e non ha più ammortizzatori non può aspettare che le azioni governative producano un significativo miglioramento della situazione occupazionale inoltre lo sgravio fiscale (cuneo fiscale)  nell’ultima finanziaria è rimasto solo per i giovani.

Prevedere delle uscite anticipate con penalizzazioni per chi ha buchi nella situazione contributiva (vedi documento allegato) e quota 100 sulla linea della proposta Damiano per chi ha la fortuna di avere molti contributi.

Data la situazione no lavoro no pensione si chiede di dare la possibilità dei contributi volontari con forti sconti oppure contributi figurativi se disoccupato involontario.


Estendere l'opzione donna anche agli uomini disoccupati con la penalizzazione prevista (calcolo contributivo) i costi restano ragionevolmente contenuti.

Come già previsto l'uscita soft part time, abbinare l'entrata part time di un disoccupato con contributi figurativi interi per entrambi versati dallo stato.

Utilizzare l'ISEE individuale per REI 
o reddito di cittadinanza,
 non è giusto cumulare redditi a 60 anni con i genitori con cui si è dovuto tornare ad abitare


Un ultima cosa   Eliminare l'adeguamento all'aspettativa di vita.
questo non solo per i disoccupati , ma un po'per tutti
stiamo chiedendo di avere un prepensionamento, un qualche cosa
che senso ha che nel frattempo che valuti cosa poter aggiustare   nel frattempo gli lasci l'incremento dell'aspettativa di vita AdV  è come fare un tira e molla che non ha molto senso 
Grazie



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FIRMA per Eliminare l'adeguamento all'aspettativa di vita

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FIRMA per Eliminare l'adeguamento all'aspettativa di vita

ABOLIAMO ASPETTATIVA DI VITA PER DIRITTO ALLA PENSIONE
Il meccanismo di ADEGUAMENTO DELLA SPERANZA DI VITA è stato introdotto con il pretesto di mettere a punto delle misure stabili di contenimento della spesa previdenziale.
E' un meccanismo permanente di adeguamento dei requisiti pensionistici che determina  
UN AUMENTO INFINITO DELL'ETA' UTILE PER ACCEDERE ALLA PENSIONE.
La conseguenza è che si sa con certezza quando si incomincia a lavorare ma non si può determinare oggi a che età si andrà in pensione.
L’età anagrafica che ci vorrà, sarà legata alla speranza di vita, che è stata aggiornata nel 2013 (di 3 mesi), nel 2016 (di ulteriori 4 mesi per un totale di 7 mesi), e sarà aggiornata, a meno che non si fermi l’aumento dell’aspettativa di vita, nel 2019 e poi da allora in poi ogni due anni 
(e non più ogni tre anni).
PER LA PRIMA VOLTA DALLA FINE DELLA GUERRA QUESTA E' DIMINUITA CON UN AUMENTO DRAMMATICO DELLA MORTALITA'!
FIRMA LA PETIZIONE PERCHE':
LE PERSONE DEVONO SAPERE CON CERTEZZA QUANDO INIZIANO A LAVORARE QUALE SARA' L'ETA' DELLA PENSIONE
I CONTRIBUTI VERSATI NELLE CASSE PREVIDENZIALI NON DEVONO PIU' ESSERE USATI COME BANCOMAT DAL GOVERNO.

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mercoledì 18 luglio 2018

Flat tax: prima i Padroni

La flat tax favorisce le classi possidenti


La flat tax è uno strumento 
per favorire le classi possidenti, 
il resto è ideologia.

Il termine inglese “Flat” significa “patto”, “piano”, ma si può tradurre anche con “uniforme” e quindi l’espressione “flat tax” può dare il senso, stiracchiandola un po’, di una tassazione uniforme, eguale, equa, giusta. Invece è il massimo dell’ingiustizia perché tendenzialmente colpisce nella stessa misura percentuale i grandi redditieri come i poveracci. Mi vengono alla memoria le parole di Don Milani: “Non c'è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. E anche senza andare a scomodare dottrine sediziose, ricordo che i testi di diritto costituzionale e di scienza delle finanze delle scuole medie superiori, ai miei tempi (anni Sessanta), giustificavano l’imposizione progressiva sulla base della stessa teoria economica borghese e ferocemente antimarxiana dell’utilità marginale. Infatti, secondo questa teoria, più sono elevati i redditi e più diminuisce l’utilità marginale della ricchezza. Di conseguenza, prelevando in misura percentualmente maggiore dai redditi elevati si sottrae meno utilità individuale di quanto si farebbe tassando indiscriminatamente con la stessa aliquota tutti i redditi. Pertanto il massimo benessere complessivo lo si raggiunge con una imposizione progressiva.

Non che sia innamorato di questa teoria economica fortemente ideologica, ma mi piace ricordare la cosa per dare l’idea di come l’ideologia borghese possa tranquillamente sovvertire, a comando, i propri orientamenti, trovando una motivazione alternativa sempre bell’e pronta.

Nel nostro caso si ragiona così: “Se i ricchi pagano meno tasse, disporranno di maggiore ricchezza e potranno investire il denaro così risparmiato creando nuovi posti di lavoro e aumentando quindi il benessere generale”. Elementare e convincente per i gonzi, evitando anche di scomodare le sofisticate curve non lineari dei marginalisti.

Peccato che gli investimenti non dipendano principalmente dal denaro che abbiamo a disposizione. Si può, per esempio, investire con il denaro preso a prestito, e comunque, anche disponendo di ingenti somme, non è detto che le si investano produttivamente, anzi non le si investiranno certamente, se non ci sono prospettive che questa spesa in investimenti
ritorni indietro maggiorata di un adeguato profitto.

Non è un’ipotesi di comodo, ma la realtà fattuale degli ultimi decenni: in relazione alla difficoltà di valorizzare adeguatamente il capitale produttivo, gli investimenti sono stati dirottati in misura ben maggiore nella finanza, negli immobili, ecc. alimentando quella bolla speculativa esplosa fragorosamente nel 2007/2008.

E poi, diciamocelo chiaramente: il processo di “flattizzazione” delle imposte non è nuovo e ha origini lontane. Nel 1974, in attuazione dell’articolo 53 della nostra Costituzione che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, fu istituita l’Irpef con struttura abbastanza progressiva. Furono infatti individuate 32 aliquote. L’aliquota massima era del 72% che si applicava a redditi superiori a 500 milioni di lire (corrispondenti a 258 mila euro, in realtà, tenuto conto dell’inflazione, a redditi attuali molto superiori a tale cifra) e la minima del 10%. Oggi abbiamo solo 5 aliquote. La massima è del 43% e si applica a redditi superiori al 75 mila euro. Quindi da 75 mila euro in poi (il reddito di una famiglia benestante ma non ultraricca), pagano tutti la stessa aliquota, anche coloro il cui reddito si conta in milioni.

Contemporaneamente, l’aliquota minima, è salita dal 10% al 23%, quindi ai poveracci è stato imposto di accrescere il loro contributo alla finanza pubblica. C’è stato evidentemente un formidabile travaso di ricchezza dalle classi più diseredate, che sono per lo più i lavoratori e i pensionati non d’oro, a quelle più abbienti. Infatti il gettito fiscale si è avvalso dal 1975 al 2005 di un incremento del 7% proveniente dai redditi di lavoro dipendente e pensioni e di una speculare diminuzione del 7,3% del gettito da reddito di impresa (dati annuari Istat). Questo drenaggio si aggiunge alla riduzione progressiva della quota dei redditi da lavoro sui redditi complessivi, avvenuta nel frattempo. Un’ecatombe per le classi lavoratrici e una crescita assoluta delle ingiustizie.

Ma non è tutto. I tagli alla finanza locale e una serie di provvedimenti hanno accresciuto la pressione tributaria tramite imposizione non progressiva o indiretta: sono accresciute le aliquote Iva che tutti paghiamo nella stessa misura, e all’interno di esse maggiormente quelle relative ai beni essenziali, consumati prevalentemente dai lavoratori, sono stati introdotti o aumentati balzelli vari che addirittura non sono neppure proporzionali al reddito, tipo l’imposta sui rifiuti urbani, l’imposta di bollo, le tasse e le imposte ipotecarie, le tariffe dei servizi pubblici, anche di quelli una volta gratuiti, i ticket sanitari e così via. Tanto che, nonostante la lieve progressività dell’Irpef, si può sostenere che il sistema tributario italiano, nel suo complesso, sia regressivo.

A fronte di questo vampireggiamento i servizi pubblici sono sempre più scadenti o inesistenti. Negli ospedali pubblici a causa del blocco del turnover e dei tagli del fondo sanitario, c’è carenza di personale di modo che aumentano le liste di attesa anche per prestazioni di massima urgenza. Le scuole pubbliche non hanno i soldi neppure per acquistare la carta igienica e devono arrangiarsi con mille escamotage per fare cassa. La manutenzione ordinaria, la pulizia, la prevenzione ambientale sono ridotte al lumicino. È facilmente immaginabile chi ha patito le conseguenze peggiori di questi tagli. E a proposito di investimenti, sono mancati i soldi per quelli pubblici, gli unici in grado di far fronte alla cronica carenza di quelli privati, attratti più dai sussulti delle borse valori che dall’economia reale.

Ora la proposta del governo Salvini (mi dicono che ci sono anche Conte e Di Maio, ma non l’avevo colto) consiste nell’attuare come prima misura economica la parte del “contratto” gialloverde che prevedeva di devolvere generosamente altri 60 miliardi di euro (roba corrispondente alla manovra di diverse leggi finanziarie) per diminuire, con la flat tax, le tasse ai ricchi. Per aggirare l’incostituzionalità l’imposta non sarà, bontà loro, completamente “uniforme”, ma vi saranno due aliquote una del 15% e una del 20%.

Mi si dirà che la diminuzione di imposta riguarda anche i redditi più bassi. Ma il beneficio per questi ultimi sarà modesto, se non nullo visto che si intende anche intervenire per “ristrutturare” le detrazioni fiscali, mentre enormi saranno i benefici per i ricchi. Per dimostrarlo scegliamo, fra le tante simulazioni disponibili assolutamente convergenti nelle conclusioni, quella griffata “Sole24ore”, noto giornale al servizio del proletariato. Scegliamo l’esempio di una famiglia “tipica” con due coniugi con un figlio, che percepiscono un reddito. Le famiglie con reddito inferiore a 30 mila euro non avranno beneficio alcuno. Quelle con reddito compreso tra 30 mila euro e 40 mila avranno una riduzione di imposte mediamente del 1,6%. Quelle con reddito compreso fra 40 mila e 50 mila vedranno aumentare questo sconto sull’Irpef al 4,6% . E via via a salire fino ai redditi superiori ai 300 mila euro annui che vedranno abbattute le loro imposte del 18,4%, percentuale che rapportata al relativo livello di reddito significa decine e decine di migliaia di euro risparmiate. Solo che i bassi redditi pagheranno questa manovra in termini di ulteriori inefficienze dei servizi pubblici e rincaro delle tariffe. Mentre chi ha un reddito di 300 mila euro o più potrà infischiarsene dei servizi pubblici, visto che già si rivolge ampiamente al privato.

Insomma, con la flat tax si fa un altro passo verso la restaurazione del capitalismo vecchia maniera, prosegue la lotta di classe di coloro che interessatamente sostengono la scomparsa delle classi, prosegue l’intervento massiccio dello stato in favore di quelli che ipocritamente chiedono meno stato e più mercato, si fa l’occhiolino all’ideologia di coloro che predicano la fine delle ideologie.
 Come quando il Matteo di turno proclama “prima gli italiani”,
che tradotto dal salvinese significa “prima i padroni”.


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Il decreto dignità si occupa realmente del precariato?

Il decreto dignità si occupa realmente del precariato?

Il decreto dignità del governo giallo-verde si occupa realmente del precariato oppure è solamente un decreto che cerca di arginare, senza centrare i reali bisogni dei precari, una problematica che da decenni ormai affligge il sistema occupazionale italiano.

Ma di cosa tratta il decreto dignità nello specifico, cosa cambia nel mondo del lavoro grazie a questa iniziativa del governo. In primo luogo non c’è più l’obbligo della causale per i contratti stagionali, i contratti a termine potranno essere prolungati fino ad un massimo di due anni,. Inoltre il decreto sancisce la possibilità di utilizzare i voucher in agricoltura e nel turismo, Un’altra novità del decreto è il divieto di pubblicità su giochi e scommesse con vincite in denaro.

Il decreto prevede anche maxi multe per chi trasferisce l’azienda all’estero dopo che ha percepito contributi statali. Il decreto include poi la revisione dello spesometro e il rinvio per la scadenza dello spesometro a febbraio 2019. Il provvedimento del governo ha anche come obiettivo il taglio dei fondi ministeriali che si aggirerebbe intorno agli 8 milioni.

Queste misure del decreto si possono considerare un passo in avanti rispetto a quelle adottate negli anni passati dagli altri governi, ma è ancora troppo poco. Il precariato non viene difatti sconfitto. Analizzando il decreto vediamo che si prendono in considerazione i contratti a tempo determinato, quelli a tempo indeterminato e i voucher, che come abbiamo visto saranno utilizzati solo per quanto riguarda l’agricoltura e il turismo, ma esiste una marea di giovani e meno giovani che lavorano spesso tantissime ore al giorno tramite la prestazione occasionale (intendo quella non retribuita tramite voucher). Questa per i precari, spesso, rappresenta la sola fonte di reddito e inoltre il lavoratore deve spesso accumulare più prestazioni per guadagnare qualcosa in più.

Chi vive di prestazione occasionale spesso è costretto a turni estenuanti di lavoro, ad essere sottopagato, a ricevere i compensi dopo mesi e in alcuni casi a non riceverli proprio. Le aziende che si avvalgono della prestazione occasionale spesso non rispettano nessuna regola né sugli orari, né sulle modalità di lavoro e né tantomeno sui compensi.

Non tutti sanno che la prestazione occasionale (sotto i 5000 euro annui) non prevede contributi INPS e quindi nonostante il lavoro spesso duro del lavoratore non prevede il versamento dei contributi previdenziali e quindi in poche parole non vale ai fini pensionistici. La cosa però curiosa è che per una recente legge del 2017 chi svolge prestazione occasionale anche fosse di 1 euro l’anno, dallo stato non è più considerato inoccupato e al contrario è considerato occupato a tutti gli effetti perdendo i pochi benefici dei disoccupati italiani come l’esenzione dalle spese sanitarie o altre agevolazioni. Inoltre chi perde il lavoro nell’ambito della prestazione occasionale non ha diritto ad alcun sostegno economico non è prevista alcuna indennità di disoccupazione come nel caso della NASpI. Quindi il decreto dignità si occupa solo di chi un lavoro già ce l’ha, non di chi è veramente precario, di chi non ha un contratto vero (dato che la prestazione occasionale spesso è costituita da un contratto verbale).

L’Italia ha bisogno di una vera lotta al precariato, non di misure marginali. Sono necessari controlli sulle aziende che si avvalgono delle prestazioni occasionali per verificare che sia tutto in regola, ma ancora tutto questo non c’è dato che molte di queste aziende lavorano in appalto per il Comune di Roma o per le aziende di trasporto pubblico, non pagando con regolarità (o sottopagando) i dipendenti, accumulando spesso ritardi notevoli nei compensi.


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martedì 17 luglio 2018

Revisione e Superamento della Legge Fornero , Analisi e Proposte

Abolire la legge Fornero sulle pensioni porterebbe l'Italia alla rovina.

Comunicato Stampa
Nel pomeriggio del 11 luglio si è tenuta l’attesa assemblea sul tema delle pensioni promossa dai comitati esodati , i gruppi Facebook di Disoccupati , quota 41, proroga opzione donna, CoNUP, Le lotte dei Pensionati , per portare all’interno del Parlamento i problemi che riguardano i lavoratori,
 i loro diritti e il futuro delle pensioni.

Ringraziamo coloro che hanno reso possibile l’evento, tutti i partecipanti e i relatori che hanno contribuito a rendere elevato il contenuto del dibattito. Infatti, riteniamo ottimo risultato di partecipazione, dibattito di alto livello, grande attenzione ai temi delle pensioni da parte dei politici e dei sindacalisti presenti, che hanno ascoltato le istanze dei diretti interessati, 
prima di esprimere la loro opinione.

Abbiamo esposto le varie tematiche sulle questioni pensionistiche, ponendo l’accento su quelle più urgenti, come è stata riconosciuta da tutti, partendo dalla questione degli esodati rimasti esclusi dalle precedenti salvaguardia, per i quali è stato sollecitato un intervento specifico dedicato.

Naturalmente il dibattito si è sviluppato in maniera diffusa sulla necessità di cambiamento atteso, promesso, sbandierato quale il superamento della legge Monti-Fornero, ma anche suoi presupposti che dovrebbe avere un sistema pensionistico solidale; 
è stato sottolineato la necessità di ritornare al retributivo per tutti (forti i dubbi di legittimità della formula del contributivo che lega le pensioni al PIL) e la revisione dei limiti pensionistici, nonché valutazioni critiche sui fondi pensioni integrativi. Perché noi il cambiamento lo rivendichiamo!

Noi chiediamo di essere ascoltati dalle commissioni Lavoro e Bilancio della Camera e del Senato, anche riunite congiuntamente , e dai ministeri del Lavoro MdL e del MEF a settembre .

Chiediamo di essere ascoltati come portatori di interessi, comitati , gruppi FACEBOOK, insieme alle parti sociali e i sindacati, aprendo tavoli con il Governo a settembre.

Il governo del cambiamento deve ascoltare e cambiare le modalità dei precedenti governi dando PRIORITÀ AI SOGGETTI DEBOLI , a chi un lavoro, un reddito, una pensione non ha (Esodati, disoccupati, 15 enni , ecc) , o ha pensioni minime o medio basse

Staremo col fiato sul collo al Parlamento e al Governo e torneremo ad incontrarci per una verifica sullo stato d'avanzamento dei provvedimenti che riguarderanno le tematiche sopra citate, prima della fine dell'anno.

Roma 11 luglio 2018

Per il comitato organizzativo
Savio Galvani 
Claudio Ardizio

Politici che hanno partecipato e che sono intervenuti nel dibattito:

MARIA EDERA SPADONI 
vicepresidente della Camera dei Deputati (M5S)

STEFANO FASSINA deputato e consigliere del Comune di Roma (LIBERI E UGUALI)

CESARE DAMIANO presidente dell'Associazione Lavoro & Welfare

WALTER RIZZETTO deputato (FRATELLI D'ITALIA)

ROBERTA FANTOZZI responsabile Lavoro di Rifondazione Comunista

LUISA GNECCHI già Deputato (PARTITO DEMOCRATICO)

ERIK UMBERTO PRETTO deputato (LEGA - SALVINI 
PREMIER (GRUPPO PARLAMENTARE CAMERA))

DANIELE PESCO presidente della Commissione Bilancio del Senato (MOVIMENTO 5 STELLE)

RENATA POLVERINI Vice presidente Commissione Lavoro Camera (Forza Italia)

GIACCONE ANDREA Presidente Commissione Lavoro Camera (Lega)

Erano presenti altri parlamentari : On. Antonella Incerti , On Carmela Bucalo , On. Lucia Azzolina, Sen. Maurizio Campari , On. Tiziana Ciprini , Sen. Tommaso Nannicini, On. Elena Murelli 
e ci scusiamo per altri che abbiamo tralasciato



La registrazione video di questo convegno ha una durata di 2 ore e 48 minuti.

Convegno "Revisione e superamento della Legge Fornero (Analisi e proposte)",
registrato a Roma mercoledì 11 luglio 2018 alle ore 16:39.

L'evento è stato organizzato da Comitato Nazionale Esodati.

Sono intervenuti: Claudio Ardizio (coordinatore del Comitato Nazionale Esodati), Maria Edera Spadoni (vicepresidente della Camera dei Deputati), Stefano Fassina (deputato e consigliere del Comune di Roma, Liberi e Uguali), Michele Caponi (rappresentante dell'Associazione CoNUP Coordinamento Pensionati di Oggi e di Domani), Roberta Bottaro, Simonetta Baldassarri (rappresentante di Opzione Donna), Mauro Nosenzo (amministratore del Gruppo di Facebook Giovani, Lavoro e Pensioni), Antonino Abbate, Savio Galvani (coordinatore nazionale del CoMU), Mario Iacobelli, Oriana Venturi (responsabile nazionale della CIL (Confederazione Intercategoriale Lavoratori) Pensionati), Cesare Damiano (presidente dell'Associazione Lavoro & Welfare), Ezio Gallori (sindacalista e Fondatore del Coordinamento Macchinisti Uniti), Roberta Fantozzi (responsabile Lavoro, Partito della Rifondazione Comunista), Walter Rizzetto (deputato, Fratelli d'Italia), Daniele Pesco (senatore, MoVimento 5 Stelle), Erik Umberto Pretto (deputato, Lega - Salvini Premier (gruppo parlamentare Camera)), Roberto Ghiselli (segretario confederale, Confederazione Generale Italiana del Lavoro), Domenico Proietti (segretario confederale, Unione Italiana del Lavoro), Valeria Picchio (membro del Dipartimento Democrazia Economica, Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), Maria Luisa Gnecchi.

Tra gli argomenti discussi: Ammortizzatori Sociali, Assistenza, Autodichia, Berlusconi, Bilancio, Camera, Cassa Integrazione, Cittadinanza, Corte Dei Conti, Cottarelli, Damiano, Debito Pubblico, Demografia, Diritti Sociali, Disoccupazione, Donna, Economia, Esodati, Famiglia, Finanza Pubblica, Fisco, Flat Tax, Fornero, Giovani, Governo, Indennita', Inps, Istat, Italia, Lavoro, Legge, Legge Di Bilancio, Liberalismo, Liquidazioni, Maroni, Mastrapasqua, Mercato, Ministeri, Parlamento, Partiti, Pensionati, Pensioni, Pil, Politica, Precari, Previdenza, Reddito, Riforme, Risparmio, Senato, Sindacato, Solidarieta', Spesa Pubblica, Statistica, Stato, Tasse, Unione Europea, Welfare.





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martedì 10 luglio 2018

Cgia: col Lavoro nero il Fisco perde 43 miliardi l’anno

Secondo il rapporto steso dalla Cgia di Mestre,   in Italia ci sarebbero 3 mln di lavoratori irregolari.


Secondo il rapporto steso dalla Cgia di Mestre,
 in Italia ci sarebbero 3 mln di lavoratori irregolari.
Le più colpite: Calabria, Campania e Sicilia.

Che il lavoro nero o irregolare sia una delle piaghe endemiche del nostro sistema economico è cosa risaputa. Ma ora una recente indagine della Cgia di Mestre mette in evidenza le proporzioni abnormi che, a motivo di una serie di concause, ha raggiunto il fenomeno. L'indagine mette in evidenza come il problema sia trasversale a tutti i settori economici, anche se in alcuni, come edilizia e, ancor di più, agricoltura, si più accentuato. Addirittura ci sarebbero esattamente 3 milioni e 300 mila lavoratori completamente sconosciuti a Fisco, Inps, Inail e, quindi, senza alcun tipo di tutela. La Cgia ha calcolato anche il fatturato che viene sottratto all'imposizione fiscale.

E si tratta Di una cifra ragguardevole.
Stiamo parlando, infatti, di più di 77 miliardi di euro ogni anno.

L'analisi della Cgia
Il problema del lavoro nero si collega ad altre questioni estremamente sentite nel nostro Paese. Una di queste è l'evasione fiscale, l'altra, la questione meridionale. Infatti, data l'alta pressione fiscale che tuttora contraddistingue il nostro sistema tributario, molti, sia tra le aziende che tra i privati sopratutto al Sud, ricorrono al lavoro nero, per sbarcare il lunario. Di conseguenza, le casse dello Stato, ogni anno, perdono qualcosa come 42 miliardi e 600 milioni di euro. Soldi, che se recuperati a tassazione, potrebbero incidere notevolmente sulla pressione fiscale facendola abbassare considerevolmente.

Naturalmente, per poter ottenere questo risultato occorre che il Mezzogiorno d'Italia cresca economicamente e attiri investimenti pubblici, ma, sopratutto privati.

La Cgia, infatti, ha messo in evidenza nella sua indagine, come il fenomeno del lavoro nero sia particolarmente sentito nel Sud più profondo d'Italia. In Regioni come la Calabria, Campania e Sicilia. Queste tre Regioni, messe insieme, totalizzano un esercito di lavoratori irregolari che ammonta a 841 mila e 500 lavoratori.

Le mancate entrate per le casse dello Stato, sommando gli importi calcolati dalla Cgia per queste tre Regioni ammontano a circa 9 miliardi e mezzo di euro. In termini percentuali, rispetto alle stime del Pil ufficlale, il sommerso di queste tre Regioni, sempre in forma aggregata, è pari al 22,1% del Pil. Se, poi, si pensa che il dato totale di mancate entrate, cui accennavamo poco sopra, di 42 miliardi e 600 milioni di euro è pari a circa il 40% del Pil ufficiale si riesce a comprendere meglio le proporzioni del problema a livello nazionale.

Anche perché le mancate entrate, danneggiano, più o meno indirettamente, anche le attività regolari che, da una parte, si ritrovano con un'imposizione tributaria maggiore di quanto effettivamente dovrebbero pagare se il problema del lavoro nero fosse ridimensionato e residuale.

Ma, dall'altra, si trovano anche a dover fronteggiare la, ovvia, concorrenza sleale delle aziende che ricorrono al lavoro nero e dei lavoratori in nero stessi. Questo, ovviamente, perché non pagando contributi, né assicurazioni obbligatorie, hanno un costo del lavoro decisamente inferiore. E possono, quindi, offrire i loro beni e servizi a prezzi decisamente più convenienti per il consumatore finale.

Le proposte di soluzione della Cgia
Per contrastare e, possibilmente, risolvere il problema del sommerso, l'indagine della Cgia mette in evidenza come sia necessario non solo abbassare le tasse in generale ma anche i contributi previdenziali in particolare. Secondo la Cgia sarebbe opportuno anche ripristinare, in qualche forma, i voucher, come evidenzia "Repubblica". Sopratutto, come mezzo per favorire l'emersione del lavoro nero. Ma adottando opportuni correttivi per evitare i casi di abuso del passato. Sarebbe necessario, a questo scopo, come messo in risalto dal "Corriere della Sera", aumentare e potenziare gli organi preposti all'attività di controllo. E dare il via ad una campagna educativa di sensibilizzazione in tutti i settori sociali per promuovere la cultura della legalità. Staremo a vedere come verranno recepite queste indicazioni dal nuovo Governo.




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sabato 7 luglio 2018

Decreto Dignità: Analizziamolo

Decreto Dignità: Analisi

“Decreto dignità”: un primo (timido) passo in controtendenza

Proviamo a gettare uno sguardo sull’ormai celeberrimo Decreto Dignità (ufficialmente denominato “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”), tralasciando commenti giornalistici e futuribili sviluppi e concentrandoci sul testo nudo e crudo che – giova ribadirlo – acquisirà una veste definitiva appena con la conversione in legge,
che potrebbe riservare spiacevoli sorprese.

Una premessa d’insieme: l’articolato è abbastanza breve (12 articoli), l’italiano usato relativamente comprensibile… e quest’ultima è già una notizia, visto il groviglio di richiami – sempre criptici – cui siamo stati abituati in passato.

Il testo è suddiviso in quattro parti: le prime due, maggiormente corpose, sono dedicate a precariato e delocalizzazioni (apprezzabilmente intese in senso lato), la terza alla piaga del gioco d’azzardo, mentre la quarta è un fritto misto.



Il Titolo I (artt. 1-3) è incentrato sul contrasto del fenomeno al precariato, oggi onnipresente e multiforme.

L’articolo 1 conferma la durata massima dei rapporti a tempo determinato (36 mesi), aggiungendo però che – in assenza di specifiche esigenze legittimanti il successivo rinnovo (co. 1, lett. b) – essa non può eccedere i 12 mesi. In pratica può essere stipulato liberamente un primo contratto a tempo determinato di 12 mesi, rinnovabile a condizione che a) vi siano esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività di lavoro o sostitutive (cioè: vi siano nuove attività extra da svolgere per un periodo ristretto oppure si tratti di sostituire un dipendente assente per giustificato motivo, ad es. la maternità), b) si sia di fronte a un temporaneo (ed inatteso) incremento dell’attività produttiva oppure c) si verifichino picchi di attività (attesi) connessi ad attività stagionali. Logica impone che le tre tipologie di esigenze vengano considerate alternative fra loro, non cumulative (anche se la previsione non è chiarissima sul punto per come risulta redatta).

Il carattere “rivoluzionario” della novità consiste nel suo essere… un parziale ritorno al passato: le c.d. causali esistono da quando esiste un diritto del lavoro degno di questo nome e, non a caso, la loro abolizione è stata attuata (con L. 78/2014) dal governo iperliberista presieduto da Matteo Renzi. Non si tratta, tuttavia, di condizioni particolarmente gravose per la parte datoriale: a ben vedere, esse subordinano il rinnovo di un rapporto a termine al sussistere di esigenze effettivamente temporanee, riconducendo l’istituto verso il suo alveo naturale, e sono sufficientemente “ampie” da consentire una certa libertà di manovra. Parziale ritorno al passato, dicevamo: la macchina del tempo si ferma a 4 anni fa, visto che la Riforma Fornero, di poco precedente, aveva escluso la necessità di causali per il (primo) contratto stipulato per un periodo non eccedente i dodici mesi.

Altra piccola novità (co. 2): l’apposizione del termine deve risultare direttamente (non più anche “indirettamente”) da atto scritto e, a partire dal primo rinnovo, l’atto deve indicare espressamente le esigenze sopracitate. L’atto scritto non occorre per i rapporti brevissimi (fino a 12 giorni).

Diminuisce (di un’unità) il numero massimo di proroghe consentite, mentre opportunamente si allunga il termine a disposizione del lavoratore per l’impugnazione nell’eventualità in cui le norme siano violate a suo danno.

L’articolo 2 equipara sotto il profilo del trattamento normativo il c.d. lavoro interinale al tempo determinato dipendente, la cui disciplina era prima applicabile “in quanto compatibile” (e con una pluralità di eccezioni e deroghe, senz’altro peggiorative per il prestatore).

L’articolo 3 penalizza invece lievemente il datore che faccia ricorso al tempo determinato, gravandolo di un contributo addizionale – rispetto chiaramente alle assunzioni a tempo indeterminato – pari all’1,9 per cento della retribuzione imponibile ai fini previdenziali (la soglia della Fornero era 1,4%, perciò si potenzia una norma già esistente; i proventi sono destinati al finanziamento dell’indennità mensile di disoccupazione detta NASpI).

La disciplina contenuta nel Titolo I si ispira al principio del tempus regit actum, si applica cioè ai contratti di nuova sottoscrizione e ai rinnovi dei contratti già in essere.

Conclusioni: l’inversione di rotta è appena un accenno, anche se restituisce al contratto flessibile la sua natura eccezionale di istituto legato a specifiche necessità transeunti. Renzi, non contento di aver reso precario ogni rapporto sopprimendo la reintegra, aveva invece fatto di tempo (pseudo)indeterminato e determinato due gemelli siamesi, a tutto svantaggio della classe lavoratrice: d’altra parte, era lì per compiacere i suoi sponsor.



Il Titolo II (artt. 4-7) contiene il primo tentativo di contrasto alla mala pratica delle delocalizzazioni dettate da mere finalità di profitto economico (cioè quasi tutte). L’art. 4, co. 3, abroga due norme che prevedevano un obbligo di restituzione del solo contributo ricevuto dall’azienda in caso di delocalizzazione al di fuori dei confini della UE; la nuova disciplina è assai più generale e introduce contromisure che paiono a chi scrive adeguate (si vedano alcuni miei scritti precedenti in cui teorizzavo il concetto di “danno sociale”). L’articolo 4 stabilisce, in effetti, non solamente l’obbligo a carico delle imprese di restituire quanto ottenuto in caso di delocalizzazione (anche parziale o mascherata) in Paesi esteri – pure appartenenti alla UE – “entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata”, ma prevede pure una dissuasiva sanzione (da 2 a 4 volte il valore dell’aiuto) oltre a maggiorare l’interesse (fino al 5% in più rispetto al tasso ufficiale) sull’importo che il beneficiario deve rimborsare. Il credito nei confronti dell’impresa è opportunamente assistito da un privilegio mobiliare (co. 2), anche se sarebbe stato opportuno collegare il trasferimento economico alla costituzione di un’ipoteca o alla prestazione d’una garanzia di natura fideiussoria.

L’articolo 5 riguarda un fenomeno (all’apparenza) diverso: quella dell’impresa destinataria di benefici legati al mantenimento dei livelli occupazionali. Se questi ultimi vengono ridotti nel quinquennio successivo all’erogazione le amministrazioni pubblica hanno facoltà di revoca (totale o parziale), una volta individuate – a monte – le condizioni per attuare la stessa. Dalla lettura del testo si evince che la revoca non è automatica, ma andrà ricollegata a situazioni da cui emerga l’intento imprenditoriale di profittare della situazione. Il comma 3 si occupa dell’ipotesi in cui l’aiuto sia slegato al mantenimento dei livelli occupazionali, e consente la revoca allorquando la riduzione di personale lasci presagire l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi in vista dei quali l’incentivo è stato concesso. Qui non c’è delocalizzazione, ma il risultato per i lavoratori è lo stesso – e si chiama licenziamento.

L’articolo 6 riguarda il c.d. iper ammortamento dei beni strumentali: i benefici fiscali elargiti vanno recuperati (attraverso il meccanismo tributario) se i beni oggetto di sostegno vengono ceduti a titolo oneroso o destinati a strutture produttive situate all’estero, anche se appartenenti alla medesima impresa (meglio sarebbe stato scrivere “gruppo”). Si tratta pur sempre di una delocalizzazione (riguardante i soli beni produttivi), anche se considerata meno grave e non sanzionata. Resta da capire se la formula di cui al comma 2 “i beni agevolati vengono ceduti a titolo oneroso” sia collegata a “a strutture produttive situate all’estero” oppure no: la rubrica dell’articolo 6 e la ragionevolezza fanno propendere per una risposta negativa. In effetti poco cambia se un impresario vende in patria oppure all’estero beni acquisiti a prezzi di favore: il dipendente e lo Stato prodigo restano comunque fregati. L’incertezza sull’interpretazione letterale potrebbe però ingenerare letture furbesche (e quindi contenzioso, ma del tipo gradito ai padroni). La disciplina non si applica nell’ipotesi di sostituzione del bene da ammortizzare (co. 4).

L’articolo 7, infine, esclude dalle agevolazioni fiscali i costi per l’acquisto di beni immateriali da imprese appartenenti al medesimo gruppo (c.d. triangolazioni infragruppo). La ratio è abbastanza ovvia: una partita di giro non dovrebbe dar frutti succosi. C’è infine un limite generale: i crediti d’imposta per gli acquisti (effettivi, non “triangolari”) di beni immateriali si applicano solo se i beni sono utilizzati direttamente ed esclusivamente per attività di ricerca e sviluppo ammissibili al beneficio.



Il Titolo III consta del solo articolo 8 e introduce un divieto generale di pubblicità, con qualsiasi strumento di diffusione, per giochi e scommesse, con esclusione delle lotterie nazionali (lo Stato biscazziere è un’istituzione…) e degli spot che incitano a giocare responsabilmente. Le sanzioni, erogabili dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sono abbastanza pesanti. Anche qui ci si uniforma al principio tempus regit actum.



Il Titolo IV (artt. 9-12) contiene un pot-pourri di norme eterogenee: l’articolo 9 coinvolge ISTAT e associazioni dei consumatori nell’elaborazione della metodica per la ricostruzione induttiva della capacità di spesa dei contribuenti, mentre l’articolo 11 abolisce il meccanismo dello split payment per le prestazioni rese alle PA i cui compensi risultino assoggettati a ritenute alla fonte. Il costo di quest’operazione non è al momento quantificato.

Nel complesso il Decreto sarebbe a costo zero per la Finanza pubblica.


La valutazione di chi scrive è articolata: se la battaglia contro delocalizzazioni e affini pare condotta con vigore e merita dunque apprezzamento, il contrasto al precariato resta al livello di buone intenzioni. Mi sento una tantum di concordare con l’on. Fratoianni, che rileva la “timidezza” dell’operazione ma sottolinea anche che essa segna “un passo nella direzione giusta”.

Sotto sotto l’unica ma clamorosa novità sta nel fatto che, per la prima volta da almeno cinque lustri, i diritti sociali – anziché essere compressi – vengono un tantino rafforzati: mi viene in mente la celebre frase pronunciata da Neil Armstrong al momento dell’allunaggio. E’ presto per dire se siamo di fronte ad un cambio di paradigma, considerate anche le reazioni negative al provvedimento. Quella della destra nazionale (la Lega), paladina degli interessi dei piccoli e medi produttori perlopiù “stanziali”, è piuttosto di cauta perplessità: piacciono le misure contro le delocalizzazioni, molto meno il modesto freno posto all’utilizzo del tempo determinato. Sparano invece a zero sul decreto i rappresentanti locali (PD e FI) dell’affarismo e della finanza sovranazionali, fautori di un illimitato “diritto di delocalizzare” (e pure di migrare, all’occorrenza) e di un totale asservimento dei lavoratori nel nome – si intende – di progresso, produttività e altre mirabolanti delizie. Guai allo Stato che, invece di interpretare Pantalone, provi a mettersi di traverso: suo compito è elargire denari e basta! Si tratta di critiche ideologiche, impudiche e amaramente ridicole, dal momento che la norma colpisce esclusivamente le delocalizzazioni non necessitate e truffaldine (in realtà, con la loro livida opposizione i forza-piddini ammettono senza volerlo che tutte le delocalizzazioni sono tali!) e che – per quanto concerne i contratti precari – la regolamentazione introdotta dalla Fornero non era esattamente di tipo sovietico.

Il paventato “aumento del contenzioso”, poi, è cinico sfoggio di humour nero da parte di personaggi senza scrupoli né ritegno: come si azzera il contenzioso? Semplice: cancellando i diritti, come lorsignori han sempre fatto (e sempre faranno, se sale al potere il Calenda di turno).

Ripeto: la conversione in legge del decreto potrebbe peggiorarlo, anche se non credo che Salvini abbia interesse a forzare la mano e che Di Maio sia disposto a farsi scippare un provvedimento-bandiera. Nella migliore delle ipotesi il c.d. Decreto Dignità potrebbe rivelarsi un punto di partenza: il futuro, dopo un venticinquennio di esecutivi di destra (economica), potrebbe riservarci l’inedita esperienza di un governo di… destra-sinistra, con i grillini costretti su posizioni più “estreme” di quanto desiderino dall’esigenza di tener testa all’arrembante Salvini.

Una simile evoluzione rimetterebbe in gioco parti della Sinistra – mi riferisco a quelle che alla scipita commedia dell’antifascismo permanente preferiscono il cimento con un avvenire che resta difficilissimo per noi tutti.

Per adesso lasciamo però da parte i voli pindarici e teniamoci questo dignitoso decreto.



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Pensioni anticipate 2018, novità al 6/7

Oltre a quota 100 spunta il superbonus

 Oltre a quota 100 spunta il superbonus

Le ultimissime novità al 6 luglio 2018 riguardano da un lato gli avvertimenti di Tito Boeri sul fatto che le misure pensate dal neo Governo, come quota 100 e 41, siano troppo esose per le casse dello Stato e penalizzanti per le future generazioni, con stime ben diverse da quelle ipotizzate da Salvini e Di Maio, dall’altro da Brambilla, esperto previdenziale e mente del capitolo previdenziale della Lega, che conferma i costi esosi della controriforma, ma annuncia che la stessa sarà in realtà molto più complessa ed articolata di come possa sembrare sulla carta. Ad esempio alla quota 100, a partire dai 64 anni d’età e 36 di contributi, si assocerebbe un superbonus del 30% per chi invece decidesse di restare, nonostante il montante contributivo raggiunto, sul posto di lavoro. Vediamo in dettaglio l’ultima novità del governo gialloverde in campo previdenziale.

Pensioni ultimissime novità, spunta il superbonus del 30%
Per superbonus si intende una sorta di beneficio che verrà concesso a quanti pur essendo arrivati in età di pensionamento decideranno di proseguire nell’attività lavorativa. Una sorta di incentivo a non lasciare il posto di lavoro, affinché non vi sia la famosa migrazione pensionistica temuta dal Presidente dell’Inps con l’avvio della misura quota 100 e 41.5. Per Boeri infatti ripristinando le pensioni di anzianità con quota 100 e 41 vi sarebbero nell’immediato 750 mila pensionati in più ed il numero salirebbe ancora nel 2020, in quanto potrebbero beneficiare della nuova riforma, ben 1 milione di soggetti in più. Numeri da capogiro che potrebbero non essere sostenibili dalle casse dello Stato, creando, dice Boeri allarmato, conseguenti devastanti non solo per l’economia del Paese, ma anche per le generazioni di oggi. La quota 100, infatti, indipendentemente dalla sua formulazione, paletti più o meno restrittivi, costerebbe comunque molto.

Ma da Brambilla e dalla Lega arriva l’ultima novità per contenere l’effetto di ‘uscita in massa’ ossia il superbonus del 30% per chi continuerà a lavorare. Quanti lo faranno rinunceranno all’accredito dei contributi ottenendo in busta paga un extra esentasse  pari al valore della contribuzione. Si tratterebbe, a conti fatti, dice Brambilla, di un aumento del 30% in busta paga che potrebbe dunque far riflettere i lavoratori sul fatto che sia poi davvero conveniente smettere subito di lavorare una volta ottenuti i requisiti per poter accedere alla quota 100. Le considerazioni, alla luce dei commenti che ci pervengono sul sito sono d’obbligo.

Considerazioni sulla proposta del superbonus del 30%
I lavoratori stanno chiedendo da tempo ed in tutti i modi al Governo del Cambiamento di poter uscire dal mondo del lavoro attraverso o la quota 100 senza paletti, 60+40, o dopo 41 anni di servizio indipendentemente dall’età. Chiedono al Governo di poter accedere alla quiescenza dopo una vita di lavoro, una soluzione che permetterebbe, a detta di molti lavoratori, di consentire finalmente quel ricambio generazionale necessario anche alle aziende.

Gli anziani in pensione ed i giovani al lavoro è effettivamente sempre stato anche il motto di Cesare Damiano, dunque difficilmente crediamo che il bonus del 30% possa essere la soluzione per far restare al lavoro quanti lamentano da tempo di svolgere un mestiere gravoso ed usurante e che altro non aspettano se non riforme che permettano loro di uscire senza perderci. Continua anzi sui social la delusione per il fatto che il governo gialloverde non stia pensando a misure idonee a tutti, ma abbia già posto molti limiti , non menzionati in campagna elettorale, che ridurranno la platea dei possibili beneficiari. Si pensi per la quota 100, ai 64 anni d’età, oltre al fatto che il montante contributivo potrà essere raggiunto conteggiando solo 2/3 anni di contributi figurativi, e l’assegno pensionistico verrà calcolato su base contributiva da 1996.  Forse il Governo per accontentare i suoi elettori più che ad un bonus dovrebbe pensare a come abbattere i paletti imposti, nonostante il problema risorse che era chiaro già in campagna elettorale, ma che non ha impedito promesse, che ora tutti si aspettano di vedere realizzate. Auspicando, inoltre, che non si voglia prendere seriamente in considerazione l’idea del ricalcolo contributivo puro per tutti ovvero anche per le pensioni in essere.


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Cosa Cambia dal 2019 per le Pensioni dei Militari

PENSIONI MILITARI, ECCO COSA CAMBIA DAL 2019

Anche il comparto difesa, sicurezza e soccorso pubblico dovrà dal prossimo anno lavorare 5 mesi in più. Le indicazioni fornite ieri dall’Inps confermano l’adeguamento dei requisiti di pensionamento del personale appartenente ad Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia penitenziaria, Guardia di Finanza e Vigili del Fuoco nella misura stabilita dal decreto del Ministero del Lavoro e delle’Economia dello scorso 5 Dicembre 2017. 

Com’è noto i lavoratori nelle forze armate e delle forze di polizia ad ordinamento militare e civile mantengono requisiti previdenziali diversi da quelle generali vigenti nell’AGO e nelle gestioni sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria in virtu’ delle specificità del settore riconosciute ai sensi del Dlgs 165/1997 che non sono state interessate dal regolamento di armonizzazione adottato nel 2013 (Dpr 157/2013). Ma anche questi valori devono essere comunque adeguati, in sintonia con quanto accade nei confronti degli altri lavoratori iscritti alla previdenza pubblica obbligatoria, alla speranza di vita.

Pertanto nel prossimo biennio 2019-2020 slitterà in avanti l’età anagrafica richiesta per la pensione di vecchiaia sia quella anagrafica e/o contributiva prevista per l’accesso alla pensione di anzianita’.

In particolare il trattamento di vecchiaia dal 1° gennaio 2019 può essere conseguito al raggiungimento dell’età anagrafica massima per la permanenza in servizio prescritta dai singoli ordinamenti variabile in funzione della qualifica e del grado (oscilla tra i 60 e i 65 anni) aumentata di un anno congiuntamente al requisito contributivo previsto per la generalità dei lavoratori, 20 anni di contributi. Il requisito anagrafico non viene adeguato agli incrementi della speranza di vita però nell’ipotesi in cui al compimento di detto limite di età risultino già soddisfatti i requisiti prescritti per il diritto a pensione (di anzianità), in sostanza i 35 anni di contributi. 
Circostanza abbastanza frequente.

Anche i requisiti per la pensione di anzianita’ subiranno lo slittamento. Dal 2019 si potrà accedere al trattamento anticipato al perfezionamento o di una anzianità contributiva di 41 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica; oppure al raggiungimento di una anzianità contributiva non inferiore a 35 anni e con un’età di almeno 58 anni; oppure al raggiungimento della massima anzianità contributiva corrispondente all’aliquota dell’80%, a condizione essa sia stata raggiunta entro il 31 dicembre 2011 (attesa l’introduzione del contributivo pro-rata dal 1° gennaio 2012), ed in presenza di un‘età anagrafica di almeno 54 anni. Quest’ultima casistica è in realtà ormai inverosimile attesa la naturale fuoriuscita dal servizio del personale di elevata anzianità, di servizio ed anagrafica.

Nei confronti del personale in parola, inoltre, continuerà a trovare applicazione il differimento di 12 mesi tra perfezionamento dei requisiti anagrafici e/o contributivi e riscossione del primo assegno pensionistico a causa della finestra mobile. Si ricorda però che per coloro che accedono alla pensione di anzianita’ indipendentemente dall’età anagrafica il differimento sarà di 15 mesi. 

Il personale che, invece, ha raggiunto i requisiti per il diritto a pensione entro il 2018 ancorchè la decorrenza si collochi successivamente al 31 dicembre 2018 non sarà coinvolto nell’adeguamento alla speranza di vita. Ai fini del raggiungimento degli anni contributivi si rammenta che il personale può godere di specifiche supervalutazioni dei servizi prestati entro il limite massimo di cinque anni.

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lunedì 2 luglio 2018

Reddito di Inclusione, si allarga la platea

Reddito di Inclusione, si allarga la platea

 sostegno per 700 mila famiglie 

Dal primo luglio scompare il requisito familiare per il Reddito di inclusione,
diventano 700 mila le famiglie beneficiarie. Il PD: 'Non basta ancora'.

Il Reddito di inclusione vede allargata la platea di destinatari grazie all’abolizione, a partire dal primo luglio, dei requisiti familiari precedentemente richiesti per poter essere inclusi nel beneficio. La novità, prevista dalla Legge di Bilancio 2018, porterà a quota 700 mila le famiglie destinatarie del sussidio grazie al fatto che non sarà più necessaria, per richiedere il sostegno, la presenza di un minorenne o di un disabile nel nucleo familiare.

E’ stata intanto presentata alla Camera una mozione, a firma del Partito Democratico, affinché la misura possa essere ulteriormente finanziata per incrementare il numero di famiglie beneficiarie.

Cambiano i requisiti per il Reddito di inclusione
Il Reddito di inclusione (Rei) è una misura destinata al sostegno delle famiglie economicamente disagiate, introdotto con il decreto legislativo 15 settembre 2017 n. 147, che prevede l’erogazione di un beneficio economico condizionato dall’accettazione di un progetto personalizzato di attivazione e inclusione lavorativa e sociale.

Fin dal momento della sua entrata in vigore, l’accettazione della domanda prevedeva il possesso dei seguenti requisiti legati alla residenza, al reddito e alla composizione del nucleo familiare:

cittadinanza di un Paese dell’Unione Europea o di un Paese terzo purché in possesso di un permesso di soggiorno UE per lunghi periodi;
reddito Isee non superiore a 6.000 euro, reddito immobiliare entro i 20.000 euro (dal calcolo viene esclusa la residenza di abitazione), patrimonio mobiliare entro i 6.000 euro (soglia elevata di 2.000 euro per ogni componente della famiglia successivo al primo fino ad un massimo di 10.000 euro);
presenza all’interno della famiglia del richiedente di un minorenne, oppure di un disabile, di una donna in stato di gravidanza o di un disoccupato ultra 55enne.
Con la novità entrata in vigore dal primo luglio, non è più richiesto quest’ultimo requisito di tipo familiare, rendendo il Reddito di Inclusione la prima misura a carattere universale mai varata in Italia destinata a contrastare la povertà e l'esclusione sociale.

La misura prevede l’erogazione di un sussidio mensile, attraverso l’accredito sulla Carta Rei, variabile da 187,50 a 534 euro a seconda del numero dei componenti della famiglia. Allo stesso tempo, il beneficiario deve impegnarsi a seguire un piano personalizzato destinato a favorirne l’inserimento nel mondo del lavoro.

Estendere il Reddito di inclusione: una mozione del PD
L’eliminazione dei requisiti familiari porteranno, secondo i calcoli dell’Inps, da 500 mila a 700 mila le famiglie che potranno beneficiare del Reddito di inclusione, per un totale di circa 2,5 milioni di cittadini coinvolti. Cifre ancora insufficienti rispetto ai 5 milioni di persone che, sempre secondo l’Istituto della Previdenza Sociale, vivono al di sotto della soglia di povertà nel nostro Paese.

In tema di ampliamento ulteriore della platea dei beneficiari del Rei, si registra un’iniziativa del Partito Democratico che, nei giorni scorsi, ha presentato alla Camera una mozione che mira al finanziamento della misura con ulteriori 3 miliardi di euro
da mettere in bilancio a partire dal gennaio 2019.

L’esame della mozione è stata calendarizzata per il prossimo 16 luglio, mentre le votazioni sono previste per i giorni immediatamente successivi, 17 e 18 luglio.



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